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Nella produzione di ogni artista è costante la ricerca dei segni genetici che dall’infanzia vivono nella memoria, talchè ogni cosa porta il nome ancora indistinto di quelle apparenze in cui si vanno scoprendo segnali, sentimenti, emozioni. É stato perfino sostenuto che ogni autore scrive sempre nel tempo la stessa opera autobiografica. Senza voler approfondire in questa sede la tesi dei semiologi-peraltro costante nel ribadire che ognuno di noi, nel corso della propria esistenza, è portato a recuperare i segni della memoria prenatale non si può non osservare che le forme espresse da Carlo Fantauzzi traggono forza da questa continua rivisitazione del sentimento originario della vita, in termini più o meno simbolici. Ha scritto il poeta Horderlin che “sovente chi interroga il suo cuore dice di quella vita che genera parola”. Da qui l’importanza di dare parola al momento epifanico dei festeggiamenti come nella città di Arpino gli amministratori e gli ammiratori danno parola ai quarant’anni dell’attività artistica di Fantauzzi dal momento che hanno un legamento con l’esposizione delle opere dell’artista che si ispirano proprio alla “semantica del mio caos”, come recita la tematica della rassegna. Per cui nella rivelazione di un’esperienza, consumata da Fantauzzi sui valori dell’arte e non sulle implicazioni sociologiche o psicologiche della vita, appare preminente il segnale sul rapporto semiotico tra segno e referente, atteso che la sua opera è alla ricerca dell’elemento occulto, da cui trarre deduzioni sul sentimento originario, senza trascurare il riferimento al segno linguistico, mantenuto tra il reale e l’immaginario, tra il significato e il significante. É necessario però aggiungere che i due estremi linguistici non sono asimmetrici, posto che l’artista se avesse privilegiato uno dei due poli avremmo, nel caso del significante,una incidenza di natura estetica e, preferendo il significato, una rilevanza dell’aspetto fisico e oggettivo, ossia di una realtà (natura o paesaggio) che si porrebbe fuori delle radici dell’underground. In effetti nella ricerca del segno originario della vita, che obbedisce ad un bisogno interiore, Fantauzzi non esplora il tempo lineare o presentificato della storia, ma piuttosto il Tempo sincopato, forse convulso, proprio di uno svolgimento lirico, in quanto sollecitato dal vivo desiderio e anche dal tormento di dare a se stesso la nicciana “giustificazione dell’esistenza”: una esistenza che non si prevede di serenità e chiarezza rappresentativa.
D’altra parte nello svolgimento delle linee espressive, l’artista usa, accanto alle visioni pulsionali una tecnica funzionale o se vogliamo uno svolgimento meccanistico per cui assembla nei pannelli non solo quei contrari rivelati dalle forme inquietanti o dai cromatismi festanti, ma soprattutto segnali dai tratti metallici e dalle linee-forza che avvolgono e inchiavellano oggetti e reperti di uso comune, immergendoli in buchi neri.
E questo a conferma che l’artista penetra e non descrive quel mondo sotterraneo che appartiene alla sfera del notturno e dell’inconosciuto. Si tratta del sole cosiddetto notturno che hanno intravisto i grandi visionari e che “el volgo volle chiamar notte”, ha rilevato il poeta Michelangelo, mentre invece “è quel sol che non comprende”. Invero l’artista, abituato a porre i riflettori vitali al centro di sé, cerca di far luce sugli elementi nascosti e districare il groviglio di linee e segni vettoriali, a prima vista non significanti, indirizzando il processo metamorfico verso quella forte concentrazione di immaginazione che coinvolge e che infine porta alla chiarezza. É risaputo che la coscienza di aver operato viene in un secondo momento, in quanto la metafora precede la logica, come ci conferma oggi la scienza e come aveva intuito il Vico, allorché ricordava che prima è il fare e poi il sapere di aver fatto. É da rilevare infine un’altra originalità della sua ricerca, insieme plastica e dinamica, rispetto alla tecnica di superficie dell’astrattismo storico, come si sa portata a ridurre gli aspetti del mondo sensibile in una forma non–oggettiva e non–figurata, laddove invece il discorso pittorico di Fantauzzi è diretto, più che alla riproduzione imitativa, al moto unitario del vedere e del sentire il mondo interiore.
Attraverso infatti le moltiplicazioni delle risonanze timbriche e dello sconvolgimento dei ritmi andamentali delle sue composizioni, Fantauzzi modifica dall’esterno la natura delle forme, che si rivelano tra i colori brillanti segni verticali e la plasticità dei volumi, perseguendo il duplice intento, comunque unitario, di trasformare la metafora esistenziale attraverso toni visionari e nello stesso tempo di ascoltare i valori timbrici di quei colori, caldi e dinamici, che hanno contrassegnato i momenti di un’esistenza intensamente vissuti con l’arte.
Luigi Tallarico
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